martedì 19 ottobre 2010

DALER ROWNEY - SKETCHBOOK - 02




















Bene.
Questa carta mi ricorda molto da vicino quella delle Cartiere Magnani. Grande feeling per la grafite. Tiene molto bene anche gli scuri. Vellutata e scorrevole.
Sopporta bene anche l'utilizzo della gomma, a differenza dell'altra.
L'acquerello vi ha trovato un supporto discreto, senza comportamenti spiacevoli e senza particolari spunti di lode.
Peccato per la grammatura che è il minimo indispensabile.
Si tratta, però, di uno sketchbook e questo ne giustifica abbondantemente le caratteristiche meno esaltanti.

Per questo motivo mi sento di dare a questo prodotto un giudizio molto positivo.

Da provare.

Considerando poi che il suo costo (9 €) è decisamente ragionevole...

Besos

sabato 16 ottobre 2010

CARTIERE MAGNANI

Riprendo qui alcune considerazioni a riguardo del taccuino CARTIERE MAGNANI.






















Tempo addietro scrivevo:
"Sembra quasi una carta da incisione. Questo fa pensare ad una scarsa quantità di collante.
Difficile.
Resiste poco allo sfregamento e, quindi, risulta piuttosto problematica sugli scuri intensi. Dona, invece, un bellissimo sgranato sulle linee e riesce a mantenere una certa precisione al contempo. Sempre che non si insista troppo.
Regge abbastanza male la sgommatura."
Queste considerazioni si sono rivelate veritiere. In effetti, è una carta che non sopporta molto l'insistenza o la durezza della grafite.
Ultimamente ho avuto modo di sperimentare l'uso di un fineliner a inchiostro pigmentato (0,1 - 0,2 - 0,3), per l'esattezza, il SAKURA PIGMA MICRON che vedete nell'immagine sottostante.




















La carta si è comportata benissimo non ostante alcune sgommature precedenti. Nessun segno di sgranatura o di assorbenza eccessiva.
Inoltre, ho utilizzato dell'acquerello per completare i disegni (per chiarezza... mi sto riferendo ai disegni realizzati all'Aquila che vedete pubblicati qui sotto).
Non mi aspettavo una resistenza così spiccata. La carta ha reagito benissimo. Nessun problema. Anzi, una certa lentezza nell'assorbire l'acqua facilita una stesura pulita e uniforme. Una volta asciugato l'acquerello, non ho riscontrato quasi nessuna deformazione del foglio che è rimasto piano e disteso senza formare dossi e accartocciamenti.
Sorprendente!

Successivamente al passaggio del colore, ho provato a "sgommare" via, con della gomma pane, alcuni eccessi di grafite. Purtroppo, in questo caso, è riemerso il cattivo comportamento descritto in precedenza. La gomma pane, oltre alla grafite, asportava anche il colore.
Questo evidenzia il fatto che non ci sia stato un buon assorbimento del colore, oppure che la gomma pane asportasse parte delle fibre della carta in modo troppo consistente e aggressivo.

In conclusione, non credo di aver mai incontrato una carta così contraddittoria.
Perfetta quando si usa grafite morbida, fineliner o acquerello. Pessima quando si utilizza una gomma per cancellare o della grafite troppo dura.
Considerando che la si pensa per schizzare velocemente, senza eccessive manipolazioni, resto dell'idea che possa dare grandi soddisfazioni a molti.

DALER ROWNEY - SKETCHBOOK - 01

Questo taccuino è il mio nuovo acquisto.
Carta bianca naturale, 14X21,6 cm, 100g/m2. Acid free.
A prima vista sembra una carta particolarmente bella per lavorarci con della grafite. Ho dei dubbi che possa sopportare bene l'acquerello, ma di questo mi importa poco.
Si presenta di un bel colore bianco caldo, dall'aspetto molto naturale. Vellutata al tatto e piuttosto liscia.
La rilegatura è molto ben curata e la copertina presenta un gradevolissimo effetto telato.

Per chi volesse saperne di più: http://www.daler-rowney.com/en/content/hardback-books

Conto di provare presto questo nuovo sketchbook. A breve altre considerazioni a riguardo.

Saluti.






martedì 12 ottobre 2010

"Una carriola di disegni" L'Aquila 10.10.10.

Indosso il caschetto.
Insieme ai tanti altri disegnatori, ai vigili del fuoco, ai fotografi, entro nella “zona rossa” dell’Aquila.
Bastano pochi passi perché io capisca che, questa volta, disegnare sarebbe stato un compito difficile e amaro.
I miei occhi si sforzano di penetrare l’intrico di contrafforti di legno e di metallo rosso, giallo, nero, per raggiungere gli edifici che vi si nascondono.
Per quanto mi sforzi, però, mi accorgo che la città è stata sostituita. Le nuove, provvisorie (?) architetture denunciano le forze in gioco. Le spinte, i pesi, le tensioni, sono lì, svelate e rese materia.
Non posso fare a meno di cadere preda di questa bellezza altra da quella preesistente.
Dentro di me inizia a manifestarsi un contrasto forte, doloroso, tra questa nuova estetica e la sofferenza che, essa stessa, denuncia in maniera così disperata.
Oscillo tra pensieri opprimenti e meraviglia, tra compassione e analisi.
Arriva il momento di disegnare.
Buio totale.
Alla fine cedo e non ascolto più la mia parte morale, quella che mi dice che è la sofferenza di questa città a dover essere rappresentata.
Rappresento quello che vedo.
L’operazione intellettuale, morale, sarà successiva.
Ne vengono fuori quattro appunti.
Li completerò poi, utilizzando la memoria e la distanza per renderli compiuti. La sedimentazione di questa esperienza sarà il filtro necessario.

Così è stato.
Questi sono i miei disegni. Quattro.
Spero, in qualche modo, di essere riuscito a far passare il dramma di questa città.
Lo spero davvero.

Gianluca Garofalo




sabato 31 luglio 2010

My "little" moleskine.


"L'Album per schizzi A3 ha 96 ampie pagine in cartoncino di alta qualità adatto ai colori a tempera. Carta 160 g/m2 senza cloro."
Avorio.
Bellissima.
Enorme!

venerdì 25 giugno 2010

Rafael.

Ho pensato di riportare qui il racconto che ispira gli schizzi pubblicati qualche post qui sotto.
Ho pensato che potesse far piacere... almeno a qualcuno.
Il racconto si intitola Rafael.
Eccolo.



Rafael

La muleta.
Nient’altro che la muleta.
Questo pensava Juan.
Ma le sue mani non riuscivano a stringere il panno.
Le persone, impazzite nell’arena, gli urlavano in testa. I suoi piedi non erano fermi. Si rincorrevano. Veloci. Sempre di più. Fuggiva. Due banderilleros gli attraversarono la strada. Agitarono le braccia. Dissero qualcosa che lui non afferrò. Troppo veloce. Come le trombe e tutti gli ottoni, lì sopra. La sabbia schizzava via da sotto le sue scarpe. Nere. Mista al sangue. Due picadores strattonavano le redini dei cavalli, per farli girare su loro stessi mentre quelli pestavano sugli zoccoli, sbuffando e impennandosi. Lui correva. La paura lo strattonava, tenendolo per il collo, infilandogli la polvere in gola. Tra tutti i pensieri, Juan rincorreva quello giusto. L’unico. La muleta. Inciampò. Batté la faccia per terra. Si rialzò e ricominciò a correre, più forte di prima. Sentiva le mani pulsargli, bruciare e un galoppo sordo gli saliva dalle viscere. Sono i cavalli. Sono i cavalli, si ripeteva. Le donne brandivano i ventagli, chiusi, puntandoglieli contro. Gli uomini, i cappelli e i giornali. Arrotolati. Qualcuno lanciò il cuscino, di cuoio, proprio davanti alla sua corsa. Juan fuggiva. La muleta. La muleta, Juan. Ancora pochi metri, prima di poter raggiungere le barreras di protezione. Pochi metri e una muleta in terra. Prendi la muleta Juan! Juan non riusciva neppure a voltarsi. Non sapeva se il toro avesse deciso di caricare il panno di un altro torero. La bestia
poteva avere il suo corno destro, il preferito, a pochi centimetri dalla sua coscia. A pochi centimetri dal suo sangue, ma già conficcato nel suo onore. Riuscì soltanto ad alzare lo sguardo oltre la barrera di legno rosso.
Riuscì ad infilare il suo sguardo in quello di Rafael, seduto in prima fila.

Il sole infuocava i pomeriggi estivi, nella campagna madrilena, e il frinire delle cicale pareva potesse aumentare senza fermarsi mai. Lui e Rafael, da dietro la staccionata, guardavano i tori, distanti e scuri. Un giorno, anche loro, sarebbero entrati nell’arena per la loro prima novillada. Verso la metà di marzo, quando il sole non è ancora malevolo come durante le corride di pasqua, avrebbero fatto il loro ingresso e poggiato le loro cappe a nord. Avrebbero salutato il palco presidenziale, togliendosi il cappello ed inchinandosi, più o meno devotamente. Avrebbero ucciso quei tori senza muovere di un millimetro i piedi da terra. Senza passi indietro o movimenti goffi. Avrebbero accompagnato le corna con lo sguardo, movendo poco la testa, e con il gesto fluido del polso, facendo vibrare la muleta. Le avrebbero lasciate passare a pochi centimetri dalla gamba. Avrebbero fatto curvare tanto il toro da farlo cadere sul fianco. Alla fine, fermi, avrebbero tenuto il panno scarlatto a terra, davanti alla testa dell’animale, per fargliela abbassare definitivamente. Per spingere la spada tra le sue vertebre, come s’infila il cotone nella cruna di un ago.
Rafael non era un ragazzo paziente. Lui, i tori, li conosceva bene e loro conoscevano lui. L’avevano guardato, da dietro le corna, mentre gli agitava la pezza sotto il naso. È un grave errore toreare a lungo con lo stesso animale. Dopo un certo tempo, lo sguardo comincia a posarsi sul torero.
Rafael imparò questa lezione pagandola con la gamba destra. Un cattivo toro, dalla carica sbilenca, imprevedibile, ignorò la
muleta ed affondò le corna nella carne di Rafael. I medici amputarono. Juan non aveva il coraggio di Rafael. Juan aveva paura.
La sua era la paura che riesce a illuminare la drammaticità del gesto. La sua corrida era il dramma della morte, senza burle o spacconate. Il suo muovere la muleta aveva un ché di rispettoso, di severo.
I tori buoni, quelli che caricano sempre, che non hanno indecisioni, che puntano e partono dritti, Juan non li voleva. Aveva un sacro terrore dei tori cattivi, quelli che trottano per l’arena, che si guardano intorno, che non caricano nemmeno se gli butti il fazzoletto sotto il naso. Quelli che partono all’improvviso e non si curano della muleta. Erano questi che voleva. Un fatto personale. Una vendetta perseguita con ostinazione, con il suo amico Rafael seduto in prima fila, con i vestiti macchiati dagli schizzi di sangue del toro.

Rafael aveva una camicia bianca.

Juan si fermò e si voltò, di scatto. Appoggiò le spalle alla barrera. Il toro, davanti a lui, si avvicinava. Lentamente e con il sangue che gli colava dalle narici. L’animale calpestò una muleta, in terra. Juan stringeva ancora la spada nella mano destra. Il toro, sfiancato dal combattimento, si arrestò, a un passo da lui. Le banderillas piantate nel collo. La testa bassa. Juan puntò la spada e spinse, piano, facendola penetrare tra le vertebre dell’animale.
Alzò il braccio, a salutare, e si lasciò andare, con il ventre sul corno.
Il destro.