venerdì 25 giugno 2010

Rafael.

Ho pensato di riportare qui il racconto che ispira gli schizzi pubblicati qualche post qui sotto.
Ho pensato che potesse far piacere... almeno a qualcuno.
Il racconto si intitola Rafael.
Eccolo.



Rafael

La muleta.
Nient’altro che la muleta.
Questo pensava Juan.
Ma le sue mani non riuscivano a stringere il panno.
Le persone, impazzite nell’arena, gli urlavano in testa. I suoi piedi non erano fermi. Si rincorrevano. Veloci. Sempre di più. Fuggiva. Due banderilleros gli attraversarono la strada. Agitarono le braccia. Dissero qualcosa che lui non afferrò. Troppo veloce. Come le trombe e tutti gli ottoni, lì sopra. La sabbia schizzava via da sotto le sue scarpe. Nere. Mista al sangue. Due picadores strattonavano le redini dei cavalli, per farli girare su loro stessi mentre quelli pestavano sugli zoccoli, sbuffando e impennandosi. Lui correva. La paura lo strattonava, tenendolo per il collo, infilandogli la polvere in gola. Tra tutti i pensieri, Juan rincorreva quello giusto. L’unico. La muleta. Inciampò. Batté la faccia per terra. Si rialzò e ricominciò a correre, più forte di prima. Sentiva le mani pulsargli, bruciare e un galoppo sordo gli saliva dalle viscere. Sono i cavalli. Sono i cavalli, si ripeteva. Le donne brandivano i ventagli, chiusi, puntandoglieli contro. Gli uomini, i cappelli e i giornali. Arrotolati. Qualcuno lanciò il cuscino, di cuoio, proprio davanti alla sua corsa. Juan fuggiva. La muleta. La muleta, Juan. Ancora pochi metri, prima di poter raggiungere le barreras di protezione. Pochi metri e una muleta in terra. Prendi la muleta Juan! Juan non riusciva neppure a voltarsi. Non sapeva se il toro avesse deciso di caricare il panno di un altro torero. La bestia
poteva avere il suo corno destro, il preferito, a pochi centimetri dalla sua coscia. A pochi centimetri dal suo sangue, ma già conficcato nel suo onore. Riuscì soltanto ad alzare lo sguardo oltre la barrera di legno rosso.
Riuscì ad infilare il suo sguardo in quello di Rafael, seduto in prima fila.

Il sole infuocava i pomeriggi estivi, nella campagna madrilena, e il frinire delle cicale pareva potesse aumentare senza fermarsi mai. Lui e Rafael, da dietro la staccionata, guardavano i tori, distanti e scuri. Un giorno, anche loro, sarebbero entrati nell’arena per la loro prima novillada. Verso la metà di marzo, quando il sole non è ancora malevolo come durante le corride di pasqua, avrebbero fatto il loro ingresso e poggiato le loro cappe a nord. Avrebbero salutato il palco presidenziale, togliendosi il cappello ed inchinandosi, più o meno devotamente. Avrebbero ucciso quei tori senza muovere di un millimetro i piedi da terra. Senza passi indietro o movimenti goffi. Avrebbero accompagnato le corna con lo sguardo, movendo poco la testa, e con il gesto fluido del polso, facendo vibrare la muleta. Le avrebbero lasciate passare a pochi centimetri dalla gamba. Avrebbero fatto curvare tanto il toro da farlo cadere sul fianco. Alla fine, fermi, avrebbero tenuto il panno scarlatto a terra, davanti alla testa dell’animale, per fargliela abbassare definitivamente. Per spingere la spada tra le sue vertebre, come s’infila il cotone nella cruna di un ago.
Rafael non era un ragazzo paziente. Lui, i tori, li conosceva bene e loro conoscevano lui. L’avevano guardato, da dietro le corna, mentre gli agitava la pezza sotto il naso. È un grave errore toreare a lungo con lo stesso animale. Dopo un certo tempo, lo sguardo comincia a posarsi sul torero.
Rafael imparò questa lezione pagandola con la gamba destra. Un cattivo toro, dalla carica sbilenca, imprevedibile, ignorò la
muleta ed affondò le corna nella carne di Rafael. I medici amputarono. Juan non aveva il coraggio di Rafael. Juan aveva paura.
La sua era la paura che riesce a illuminare la drammaticità del gesto. La sua corrida era il dramma della morte, senza burle o spacconate. Il suo muovere la muleta aveva un ché di rispettoso, di severo.
I tori buoni, quelli che caricano sempre, che non hanno indecisioni, che puntano e partono dritti, Juan non li voleva. Aveva un sacro terrore dei tori cattivi, quelli che trottano per l’arena, che si guardano intorno, che non caricano nemmeno se gli butti il fazzoletto sotto il naso. Quelli che partono all’improvviso e non si curano della muleta. Erano questi che voleva. Un fatto personale. Una vendetta perseguita con ostinazione, con il suo amico Rafael seduto in prima fila, con i vestiti macchiati dagli schizzi di sangue del toro.

Rafael aveva una camicia bianca.

Juan si fermò e si voltò, di scatto. Appoggiò le spalle alla barrera. Il toro, davanti a lui, si avvicinava. Lentamente e con il sangue che gli colava dalle narici. L’animale calpestò una muleta, in terra. Juan stringeva ancora la spada nella mano destra. Il toro, sfiancato dal combattimento, si arrestò, a un passo da lui. Le banderillas piantate nel collo. La testa bassa. Juan puntò la spada e spinse, piano, facendola penetrare tra le vertebre dell’animale.
Alzò il braccio, a salutare, e si lasciò andare, con il ventre sul corno.
Il destro.